Nell'ambito del Commercio equo-solidale, il caffè assume un ruolo centrale, sia perché è stato uno dei primissimi prodotti coloniali ad essere commercializzato con regole non finalizzate al profitto (Africaffè), sia per il suo valore simbolico.
Il caffè è stato il primo prodotto ad essere certificato come prodotto equo e solidale, in cui viene stabilito il rapporto commerciale diretto tra operatori commerciali europei e le organizzazioni produttrici del sud del mondo. Esistono criteri e regole che devono essere rispettate per far in modo che il caffè possa essere riconosciuto come equo e solidale:
Il caffè deve provenire da cooperative di piccoli contadini certificate dal commercio equo (si esclude in tal modo il commercio intermedio locale che sovente impone condizioni di sfruttamento.
Si promuovono relazioni commerciali a lungo termine tra produttori e licenziatari
Il caffè deve essere coltivato e lavorato in condizioni rispettose dell'ambiente
I produttori di caffè ottengono un prezzo che copre i costi di produzione. Il prezzo minimo garantito da Max Havelaar è di 1,24 US$/lib per il caffè certificato in qualità convenzionale e di 1,39 US$/lib per quello in qualità biologica.
Qualora il prezzo di mercato mondiale superasse il prezzo garantito da Max Havelaar, l'organizzazione produttrice o la cooperativa agricola percepirebbe il prezzo del mercato mondiale (senza limitazioni verso l'alto) più un premio aggiuntivo di 0,05 US$ per il caffè convenzionale e 0,15 US$ per il caffè biologico
Attualmente, il caffè viene importato soprattutto dall'America Centrale (Nicaragua, Messico e altri) e solo in misura minore dall'Africa (soprattutto dalla Tanzania). La tostatura avviene nei paesi consumatori, tenendo conto dei gusti di questi. Lavorazioni intermedie, quali la trasformazione in caffè decaffeinato, avvengono anch'esse quasi esclusivamente nei paesi consumatori, anche perché di fatto questi Paesi aumentano i dazi per i prodotti trasformati, al fine di aumentare la parte di valore aggiunto a scapito dei paesi produttori.
Le preferenze dei consumatori fanno sí, che negli ultimi anni prevalga la varietà arabica, mentre la robusta svolge un ruolo sempre più marginale.
Nel 2003 la cooperazione fra la centrale di importazione del COMES Commercio
Alternativo, un gruppo di Botteghe del Mondo ed organizzazioni dell’ economia
solidale, il CEFA - organizzazione non governativa di sviluppo rurale, , la
cooperativa Yochin Tayel K’Inal del Chiapas (Messico) e l’associazione di
produttori ASIPOI del Quichè (Guatemala), da vita al “ Progetto Tatawelo”.
“Tatawelo” nella lingua dell’etnia Maya Tzotzil/Tzeltal significa “avo antico”: il
nome è stato scelto dalle popolazioni contadine indigene in onore degli antenati
che nel tempo hanno trasmesso loro le conoscenze per la coltivazione della
terra e la raccolta dei suoi frutti, volendo cosi sottolineare il desiderio di
continuità storica e culturale proprio dei contenuti e degli obiettivi del progetto.
Il Progetto Tatawelo infatti, attraverso l’importazione e la commercializzazione
di gustose miscele di caffè, punta ad sostenere direttamente meccanismi
di auto-sviluppo delle comunità indigene.
La ricerca di una maggiore autonomia è quindi un elemento essenziale delle
azioni che il progetto sostiene. Autonomia che non solo è frutto di
miglioramenti dal punto visto economico, ma anche di miglioramenti in vari
altri aspetti della società, nei campi dell’educazione, della sanità, dei diritti civili
e umani.
Autonomia è anche recupero della sovranità e della proprietà delle terre che, a
causa del colonialismo prima e dell’emarginazione e sfruttamento poi, sono
state negate loro da ormai troppo tempo: la ricerca migliori forme di
partecipazione e di governo dei propri territori è tema centrale, anche se in
forme diverse, dei popoli indigeni delle due regioni centroamericane.
Ma la ricerca di autonomia di queste comunità dal punto di vista economico
deve confrontarsi anche con la dipendenza da un prodotto coloniale – il caffè –
che essendo soggetto all’incertezza dei mercati internazionali ed al potere
spregiudicato degli intermediari, ha reso le popolazioni contadine sempre più
dipendenti e deboli, ponendo a rischio la capacità di soddisfare di anno in anno
i bisogni primari.
Per i sostenitori di questo Progetto Tatawelo lavorare per la “loro” autonomia
vuol dire innanzitutto riconoscere alle organizzazioni di produttori rispetto per
le loro scelte, essendo pronti alla costruzione di un confronto paritario, e dando
il giusto peso e valore alle “loro” decisioni, a volte molto più che alle nostre.
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